Ha letteralmente sbaragliato ogni possibile comparazione. Nessuno tra gli ospiti attesi e consacrati da Baglioni al suo Festival, ha così brillato di luce propria come ha fatto Luciano Ligabue. Era l’ospite più atteso e ne è valsa la pena. Ligabue ha acceso l’Ariston con la sua seconda apparizione sanremese in 30 anni.
Umile, disincantato, mai celebrativo, Ligabue ha rimesso in ordine i pezzi di un palco troppo convenzionale. Con un tocco di spontaneità ha spazzato via il torpore in cui la sessantanovesima edizione del festival della canzone italiana ha rovinosamente trascinato il suo pubblico per quattro lunghissime sere.
Da eroe invocato, a non divo che si palesa all’Italia, Ligabue è ancora l’artista che mette d’accordo un intero Paese. Tutti vogliono Liga, senza mai chiedersi quanto sia alto l’oro del suo talento. Le piazze continuano a invocare la sua presenza. La scena nazionale batte il fuoco della tenacia dell’artista maturo che ha vinto senza mai subirne una, le polemiche più becere in cui brucia l’Italia dei social e dei salotti televisivi.
Da perdere il fiato, l’esibizione sul palco dell’Ariston. Un trionfo di emozioni e gloria nazionale. Ha aperto con “Le luci d’America”, il nuovo singolo, per poi richiedere insistentemente una discesa dalla mitica scala dell’Ariston sulla quale si è presentato con tanto di chitarra gigante.
Con “Urlando contro il cielo” ricorda a tutti chi è, quel ‘re’ che sa scherzare ma sa far impazzire un teatro storicamente freddo e poco partecipativo. Lo si attendeva da anni a Sanremo, con la quarta sera se ne è capito il motivo.
Con “Dio è morto” e con l’immancabile duetto con Claudio Baglioni ha omaggiato Francesco Guccini, amico e compagno di viaggio.