La malattia può rendere saggi?
di Katiuscia De Leonibus
Psicologa clinica ad indirizzo sistemico relazionale
Mi occupo da anni di sostegno alle famiglie in lutto per questo mi hanno colpito le interviste rilasciate da Michela Murgia, scrittrice e opinionista, prima che morisse il 10 agosto, a 51 anni, a causa di un tumore.
Psicologa clinica ad indirizzo sistemico relazionale
Mi occupo da anni di sostegno alle famiglie in lutto per questo mi hanno colpito le interviste rilasciate da Michela Murgia, scrittrice e opinionista, prima che morisse il 10 agosto, a 51 anni, a causa di un tumore.
In quei dialoghi con diversi giornalisti parlava del tumore come parte di sé e non come un estraneo o un nemico, pur sapendo di avere ancora poco da vivere.
Ho avuto modo di “conoscere” questa scrittrice attraverso la lettura del suo romanzo L’Accabadora, uscito nel 2009, che tratta proprio di morte; accabadora è un termine sardo (che deriva dal verbo spagnolo acabar – finire) per definire la donna che porta alla morte persone ormai in fin di vita, su richiesta dei familiari.
Non sappiamo però se si tratti solo di una leggenda o se sia esistita davvero questa figura…Chi fa il mio mestiere sa che la morte è un tema scomodo del quale si tende a non parlare, si fa fatica a pronunciare questa parola anche in stanza di terapia. Sappiamo però che evitare l’argomento o far finta che non ci tocchi non fa che dargli potere; in terapia sistemica ad esempio si parla di terzo pesante per riferirsi ad un familiare che non c’è più, la cui perdita non è stata elaborata e ostacola la conduzione di una vita serena. Non è questa la sede per approfondire l’argomento ma penso sia importante scardinare questo tabù, prendendo spunto dal vissuto consegnatoci dalla scrittrice: negli ultimi anni ci ha provato una famosa azienda che si occupa di funerali e che attraverso i suoi post ironici è riuscita a “normalizzare” l’argomento e a farci perfino sorridere (della morte ben inteso e mai dei morti).Credo che Michela Murgia ci abbia lasciato in eredità una visione della vita e della morte molto concreta ma anche serena: ci ha parlato della sua malattia e con tono carezzevole e soprattutto ci ha insegnato ad accettare il fatto che la vita ha una fine. E’ importante non sprecare il nostro tempo facendo incetta di esperienze e ricordi condivisi con i nostri cari. D’altra parte elaborare il lutto è doloroso e faticoso per tutti ma lo è meno per chi può “prepararsi”alla perdita; questo perché in caso di morte improvvisa si viene investiti da un forte senso di disorientamento e di shock.
Nei momenti difficili, dei quali la malattia può essere una rappresentazione, le persone più care al malato potrebbero essere talmente spaventate e disorientate da rifiutare la vicinanza, non riuscendo ad essere d’aiuto come vorrebbero e ci si aspetterebbe. Non possiamo farne loro una colpa, in queste circostanze sarebbe utile chiedere il sostegno di un professionista che possa aiutare a “stare” nel dolore e che possa
mediare i rapporti.
Ho avuto modo di “conoscere” questa scrittrice attraverso la lettura del suo romanzo L’Accabadora, uscito nel 2009, che tratta proprio di morte; accabadora è un termine sardo (che deriva dal verbo spagnolo acabar – finire) per definire la donna che porta alla morte persone ormai in fin di vita, su richiesta dei familiari.
Non sappiamo però se si tratti solo di una leggenda o se sia esistita davvero questa figura…Chi fa il mio mestiere sa che la morte è un tema scomodo del quale si tende a non parlare, si fa fatica a pronunciare questa parola anche in stanza di terapia. Sappiamo però che evitare l’argomento o far finta che non ci tocchi non fa che dargli potere; in terapia sistemica ad esempio si parla di terzo pesante per riferirsi ad un familiare che non c’è più, la cui perdita non è stata elaborata e ostacola la conduzione di una vita serena. Non è questa la sede per approfondire l’argomento ma penso sia importante scardinare questo tabù, prendendo spunto dal vissuto consegnatoci dalla scrittrice: negli ultimi anni ci ha provato una famosa azienda che si occupa di funerali e che attraverso i suoi post ironici è riuscita a “normalizzare” l’argomento e a farci perfino sorridere (della morte ben inteso e mai dei morti).Credo che Michela Murgia ci abbia lasciato in eredità una visione della vita e della morte molto concreta ma anche serena: ci ha parlato della sua malattia e con tono carezzevole e soprattutto ci ha insegnato ad accettare il fatto che la vita ha una fine. E’ importante non sprecare il nostro tempo facendo incetta di esperienze e ricordi condivisi con i nostri cari. D’altra parte elaborare il lutto è doloroso e faticoso per tutti ma lo è meno per chi può “prepararsi”alla perdita; questo perché in caso di morte improvvisa si viene investiti da un forte senso di disorientamento e di shock.
Nei momenti difficili, dei quali la malattia può essere una rappresentazione, le persone più care al malato potrebbero essere talmente spaventate e disorientate da rifiutare la vicinanza, non riuscendo ad essere d’aiuto come vorrebbero e ci si aspetterebbe. Non possiamo farne loro una colpa, in queste circostanze sarebbe utile chiedere il sostegno di un professionista che possa aiutare a “stare” nel dolore e che possa
mediare i rapporti.
Trovo che Michela Murgia abbia fatto un gesto d’amore parlando a cuore aperto ai suoi figli, ai suoi amici, al suo pubblico, dando in questo modo la possibilità di riflettere sul senso della vita e sull’accettazione della sua inevitabile fine.
Quando la notte di San Lorenzo, se n’è andata, seppur con tristezza, eravamo pronti all’arrivederci e non possiamo che ringraziarla.