Non accontentarsi mai, vivere nella convinzione che si può fare di più per rispettare il proprio talento, qualunque esso sia. Pupi Avati, maestro del cinema italiano con 49 pellicole in carriera, ruvido e sentimentale allo stesso tempo, saggio e molto amato dal suo pubblico, è uno dei re incontrastati della nostra cinematografia. Dai preziosi ricordi della sua adolescenza bolognese alle autentiche grandi passioni artistiche racchiuse nel suo cuore: il jazz ed il cinema. L’incontro con Lucio Dalla, quel mostruoso talento che nella più totale perfezione riuscì a creare tra i due una sana competizione artistica. Alle collaborazioni con Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini, una lunga carriera e come racconta: «sempre tra alti e bassi ma con la convinzione che il giorno più bello della vita, quello in cui tutti i sogni si avverano e il destino ti riconosce quanto ti meriti, sia domani». Questo è stato il messaggio condiviso con i ragazzi Loccioni in occasione di un incontro di qualche mese fa.
C’è tanto altro da raccontare dell’inestimabile carriera di Pupi Avati costellata di film di successo; mi perdo nei suoi racconti, nella sua voce che emana forti emozioni, quasi incredula di conversare con un colosso della filmografia, ma così semplice e dai modi garbati, un uomo che meriterebbe un film: il film della sua vita!
Non è l’anagrafe che cambia una persona, ma lo spirito, l’ambizione e il talento; e lei ce lo sta insegnando con i suoi continui successi. Come si riconosce il vero talento di una persona?
Si riconosce nel confrontarsi con gli altri, nel mettere in campo quella onestà intellettuale per la quale tu ti rendi conto che la passione, la caparbietà, l’energia, non sono sufficienti, perché quello che sta a fianco a te e che sta facendo lo stesso lavoro e che gli riesce con maggiore facilità, ha un talento e tu non ce l’hai; a me capitò con la musica con Lucio Dalla, mi resi conto che per lui suonare, improvvisare e fare degli assoli tutte le volte diversi e a volte anche meravigliosi, era assolutamente naturale; lui amava la musica e la musica, a sua volta, amava lui. Io ho amato la musica pazzamente, forse più di quanto non l’abbia amata lui, ma la musica certamente non mi amava, quindi era evidente che non disponevo di quel talento, però avevo una grande passione, quindi facevo una grande confusione, pensavo che fosse sufficiente la caparbietà, l’impegno, studiavo tantissimo, ascoltavo tanti dischi, avevo uno strumento perfetto, nonostante non riuscissi a dare quello che riusciva a dare di sé Lucio.
Il suo sogno era quello di diventare un grande clarinettista jazz, ma un giorno nella sua orchestra arrivò Lucio Dalla e il suo sogno si infranse. Quali sono i ricordi più belli che conserva nel suo cuore?
L’andare in giro per l’Europa; un’Europa dei primi anni 60 che era ancora in qualche modo capace di stupefazione, di attese, di meraviglia. Noi portavamo questa musica dove non era in certi casi mai stata: in Spagna ad esempio, mi ricordo un concerto straordinario che facemmo a Barcellona, ci percepivano come se fossimo gli americani, in realtà eravamo italiani che imitavano gli americani. Andare in giro con un gruppo di ragazzi tuoi coetanei nella libertà da qualunque tipo di impegno, perché nessuno di noi aveva ancora famiglia e figli. È evidente che quando arrivò Lucio nell’orchestra, creò in me una sorte di angoscia crescente perché mi resi conto che nella competizione, lui era sempre vincente.
Come ha iniziato la strada del cinema?
Tutti i miei colleghi hanno avuto degli incontri, delle folgorazioni, io ormai ero già praticamente adulto, sposato con un figlio, facevo il direttore di un’agenzia della Findus, vendevo surgelati in Emilia Romagna e Marche, quando del tutto casualmente sono entrato in una sala cinematografica a vedere un film del quale non sapevo assolutamente nulla, come si faceva allora che si andava al cinema senza nessun tipo di preparazione; vidi questo film che aveva per titolo un numero, 8 e mezzo, che raccontava la figura di un regista, interpretato da Marcello Mastroianni, quel personaggio, quel ruolo che io non conoscevo, perché noi a Bologna del regista sapevamo che poteva essere una specie di vigile urbano che dirigeva il traffico ma niente di più; invece mi convinse che il regista cinematografico aveva a disposizione un mezzo per raccontare il dentro e il fuori dell’essere umano, i travagli e anche le gioie che ti può dare, parlare di te in un modo così fuori da ogni pudore come fa Federico Fellini in quel film, che rimasi così affascinato da convincere tutti i miei amici a provarci a fare un primo film a Bologna; naturalmente era un’impresa quasi impossibile, però riuscimmo a trovare dopo quattro anni di tentativi – visto che Roma non ci voleva ascoltare – un finanziatore bolognese, un mecenate, che produsse questo primo film e anche un secondo. Furono due disastri assoluti! Facemmo perdere a questo signore una cifra importante per quegli anni, anche se era molto ricco, poi il gruppo si dissolse. Gli insuccessi furono così evidenti per cui una città come Bologna, che è una città di provincia dove ci si conosceva tutti, quindi spietata, era molto difficile per me sopravvivere come regista fallito: sono dovuto scappare a Roma con la mia bambina e mia moglie.
Un’altra sua passione è stato anche l’horror, infatti, all’inizio della sua carriera, si è cimentato in un film giallo-horror La casa dalle finestre che ridono del 1976. Nel 1979 ha vinto il premio della Critica al Festival du Film Fantastique di Parigi ed è anche diventato un cult movie. Dopo lo splendido Impiegati (1984), dirige il capolavoro Regalo di Natale (1986), film sull’amicizia e sui tradimenti, presentato in concorso alla 43ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nel 2014 vince il premio come miglior sceneggiatura dell’anno per il film con Sharon Stone e Riccardo Scamarcio Un ragazzo d’oro al Montreal World Film Festival in Canada. Questi sono solo alcuni dei suoi innumerevoli successi: che cosa si sente di raccontare della sua strepitosa carriera, di tutti questi premi ricevuti e dei tanti successi ottenuti?
Credo di avere dato abbastanza al cinema e il cinema mi ha dato molto, ma credo di avergli anche dato molto della mia vita, perché è evidente che se ho lavorato tanto, se ho fatto tanti film, ho avuto anche molte cadute, molte sconfitte e qualche vittoria, ma molte sconfitte. Nella convinzione sempre che voglio portarmi dentro, che il film vero, quello della mia vita, quello che mi rappresenti di più e meglio, io lo debba ancora fare. Io credo che l’esistenza abbia un senso se ognuno la vive con una sorte d’insoddisfazione, sapendo che non ha veramente dato tutto quello che poteva dare in quella circostanza; sì, certe volte è vero che abbiamo dato molto, però probabilmente avremmo potuto dare ancora di più, e questa non mancanza di autoindulgenza che mi accompagna fa sì probabilmente che io sia rimasto molto vitale, malgrado la mia età.
Recentemente è scomparso il grande Ermanno Olmi, che ricordi ha di lui?
Eravamo amici, io avevo molto amato alcuni suoi film e lui aveva apprezzato alcuni miei film. Avevamo una comune propensione per la sacralità delle cose, per la sacralità della vita, quindi la religiosità che forse ci derivava o ci deriva dalla comune cultura contadina nella quale siamo cresciuti. Ermanno era una persona integra fatta ancora di quel buon senso che è l’impasto migliore nell’essere umano.
Pensa che il cinema uscirà dalla crisi?
No, non credo, uscirà nel momento in cui verrà concepito magari in un altro modo. È evidente che il racconto cinematografico rimane, però verrà fruito attraverso altri strumenti che non saranno più le sale cinematografiche, quelle sono destinate prima o poi a scomparire. Io penso che chi racconterà attraverso il cinema in un modo sempre più avvolgente, coinvolgente e tecnologicamente evoluto, avrà sempre da raccontare, però i modi attraverso i quali fruiremo di queste storie saranno sempre più diversi. Purtroppo quel tipo di attenzione, di concentrazione quasi ipnotica che creava lo schermo cinematografico, il silenzio di tutti gli spettatori che vedevano un film in una sala cinematografica, difficilmente potrà essere riprodotto, vedendo un film su un tablet, su un teleschermo o su un telefono cellulare o su qualunque altro tipo di strumento. Quando adesso entri in una multisala, vedi che la maggior parte dei ragazzi guardano un film continuando a tenere i cellulari accesi e chattando, quindi continuando a svolgere simultaneamente più attività.
Anche Signor diavolo, il suo libro uscito a marzo, è un horror: ne uscirà un film?
Spero di sì, dovremmo farlo in estate, tra l’altro con un ruolo bello anche per Iskra Menarini che debutterà per la prima volta al cinema con questo film.
Dai luoghi da lei vissuti nella sua infanzia, sempre a contatto con la campagna e la natura che danno vita a questo meraviglioso universo, trae ispirazione anche nei suoi film?
Sono stato educato e ho vissuto i primi anni della mia vita in campagna, avendo una cultura contadina. La bellezza della campagna, ma non solo della campagna in senso estetico, ma proprio di quel mondo là che è un mondo nel quale io ho trascorso probabilmente gli anni più straordinari della mia vita, in cui ero bambino e quindi l’immaginazione era il massimo, e quei luoghi e quegli spazi in cui era cresciuta anche mia madre, erano luoghi meravigliosi in cui vi erano le radici della nostra famiglia, mi sono rimasti molto dentro; forse è per quello che in molti miei film certe inquadrature ricordano quel tipo di visione… io penso che ci sia una bellezza del creato proprio, che sia in qualche modo la dimostrazione che ci sia qualcuno che ci trascende, che sta sopra di noi, che ce l’ha donata e regalata non perché noi la mortificassimo attraverso le immagini terribili del degrado dell’oggi. Come alla sera, quando si vedono questi servizi, le immagini dei telegiornali in cui ci sono delle persone che vivono nel degrado più totale che neppure Dante Alighieri quando ha scritto l’Inferno ha saputo immaginare. L’uomo si è ridotto a questo? A ferire il contesto nel quale viviamo con tanta bruttezza, perché adesso siamo circondati dal brutto, dall’orrendo e questa è una cosa che è veramente difficile da sopportare e siamo noi i responsabili. Non sono gli alieni che vengono dagli altri pianeti!
Vorrei ringraziare una mia cara amica, Iskra Menarini un’artista speciale che per 24 anni è stata al fianco di un altro artista molto speciale, Lucio Dalla, per avermi dato l’opportunità di poter entrare nel mondo di un grande artista, immenso e unico nella sua genialità come Pupi Avati.